Roberto Saviano è un caso. Tutti, in Italia, sanno tutto di lui. Il modo in cui è giunto al successo , le vicissitudini in seguito alla pubblicazione del best seller “Gomorra”. La scorta, e poi i viaggi, le trasmissioni con Fabio Fazio, i romanzi e libri successivi. Fino all’ultimo, “La Paranza dei bambini”, che fa luce sul fenomeno dei clan sempre più creati e gestiti da ragazzini, una realtà sotto agli occhi di tutti ma che poi quando si va a leggere ci si stupisce lo stesso.
Quello che vogliamo analizzare qui è la modalità di comunicazione di Saviano. Il suo “discorso”. Praticamente ininterrotto. Su tutti i mezzi possibili e immaginabili. Libri, giornali, TV, radio, social network (entrambi i più utilizzati per le news: Twitter e Facebook). E questo continuo racconto non si limita al periodo di promozione del libro in uscita, come capita a molti intellettuali italiani. Dura sempre.
Una comunicazione bulimica? Sì. Ma non per questo inefficace o isolata. I comunicatori che vanno per la maggiore oggi, politici, giornalisti e non solo, comunicano con una frequenza impressionante. Forse non quanto Saviano, ma quasi. Saviano si inserisce in un flusso definito. Ciò che lo rende particolare è proprio la multimedialità, il saper comunicare con tutti i media a disposizione e non per questo risultare meno efficace.
E non parla di sola camorra. Senza Gomorra, quel libro straordinario che ha “amplificato” un discorso grazie soprattutto alla scelta stilistica della docufiction, Saviano non avrebbe avuto il successo quasi planetario di questi anni, è vero, ma abbiamo potuto leggere o ascoltare le sue opinioni sulla politica, le istituzioni, l’economia, la cronaca, l’immigrazione, ecc.
Opinioni sempre tranchant, che dividono e molto spesso indignano. Saviano vive con una scorta sempre presente e i suoi movimenti sono monitorati e inevitabilmente limitati. Ma i suoi nemici non sono solo i boss della Camorra, “resi famosi” da Saviano (si pensi solo ai casalesi ben conosciuti da forze dell’ordine, popolazione e stampa locali ma scoperti dal grande pubblico solo dopo Gomorra).
I suoi nemici sono molti colleghi, politici da lui presi di mira, amministratori locali, sindacalisti, odiatori da tastiera e tanti altri. Basti pensare, dopo l’uscita del suo ultimo libro, alle polemiche roventi con il sindaco Luigi De Magistris che, forse con qualche ragione (anche se poi, come spesso gli succede esagera con i toni e gli epiteti) cerca di lanciare messaggi di una Napoli “rinnovata”, “ripulita” e “idonea a raccogliere turisti”.
A chi fa del giornalismo il proprio pane quotidiano interessa anche sapere cos’è che fa di Saviano l’oggetto di diversi tipi di attacco. Tra la comunità dei giornalisti c’è la recriminazione per cui nel suo lavoro più famoso, Gomorra, il nostro avrebbe utilizzato interi stralci di articoli di giornali locali senza fornire la giusta comunicazione su chi per primo avesse lavorato sulle storie di criminalità che raccontava. Addirittura sono arrivate accuse di “copia e incolla”.
Chi è e cosa rappresenta dunque Saviano? Se qualcuno facesse il gioco del “chi vorresti essere e chi sei veramente”, probabilmente lo scrittore casertano ambirebbe al Pasolini dei primi anni 70, per chi non può sopportarlo invece è solo un grillo parlante troppo petulante. Fermandoci ad un’analisi della comunicazione, Saviano costruisce in maniera sapiente un suo storytelling. Tutta la sua vita, dal 2006 a oggi, è una “storia”, e in questa storia c’è la connotazione del personaggio.
Un racconto puntellato dai suoi interventi ma anche dai suoi gusti, dai suoi sogni, dallo stile di vita che sogna e dalla quotidianità fatta di rinunce. Saviano entra nei fatti e li racconta. Le doti di comunicatore e di cantore di storie, di romanziere sono innegabili. Quello che riesce meglio allo scrittore campano in particolare nei suoi libri è l’entrare in sintonia con i mondi che racconta. Ed è ciò che più si nota nell’ultimo romanzo: il sapere effettivamente riprodurre un linguaggio e un modo di pensare (in questo caso quello degli adolescenti che creano clan già a 16 anni, con armi, spaccio ed estorsioni). Un linguaggio semplice, che riesce meglio quando non si lascia andare a sparate più o meno lunghe di carattere sociologico, che riproduce perfettamente anche nel raccontare la sua, di vita, o quando sulla Repubblica fa interventi raccontando mondi e persone anche lontani da lui. Lì c’è vita e realtà. Lì c’è induzione al pensiero, all’indignazione o all’indulgenza. E’ quello il suo valore.
Valore che scade nella noia quando si lancia in polemiche, che sembrano inevitabili, ma da cui può con il tempo affrancarsi. Saviano non è Pasolini. Gli manca forse la sofferenza personale, il soffrire sulla propria pelle un dolore che nell’artista friulano era più profondo anche della costrizione e della paura delle rappresaglie dei clan.
In fondo Saviano è un ottimista, un innamorato della vita. Ma è un divulgatore, un cantore di storie, non un fustigatore di costumi. E’ lì che perde la sua forza e si trova costretto a polemizzare con un De Magistris. Quando lavorerà anche di sottrazione nell’indicare il suo pensiero avremo uno scrittore intellettuale ancora più efficace. Questo non vuol dire dover ricorrere ad Aventini o autoostracisimi vari ma rafforzare la propria voce.
Gianluca Garro